Nonostante la speranza di una soluzione diplomatica alla crisi ucraina e le richieste, a gran voce, di de-escalation, la sera del 21 febbraio Putin ha riconosciuto le Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk e ordinato l’inizio di un’operazione militare che, solo tre giorni dopo, ha già portato i carri armati russi alle porte di Kiev. I venti di guerra tornano a far crescere l’oro, che ha raggiunto quotazioni record che non si vedevano dal 2014, il petrolio (+8,6%), e le materie di base (+9,3%), forti anche del boom delle commodity, e impongono all’Europa la ricerca di approvvigionamenti alternativi al gas russo: l’Unione Europea infatti importa circa il 35% del proprio fabbisogno di gas dalla Russia, con dinamiche differenziate tra i vari Paesi. Una riduzione delle forniture di Gazprom verso l’Europa si tradurrebbe in un ulteriore rincaro della bolletta energetica, con conseguenze negative su consumi e sulla produzione industriale, già fortemente penalizzati dai rincari degli ultimi mesi.
La dipendenza energetica dei Paesi Europei dal gas Russo nei vari stati membri comporta diversi livelli di vulnerabilità.
Per esempio, il 100% delle importazioni di gas naturale della Romania proviene da Mosca, ma la Romania risulta uno dei paesi con vulnerabilità minima, poiché il 90% del gas consumato dalla Romania è prodotto dal paese stesso. Lo stesso dicasi per la Finlandia che importa tutto il gas utilizzato, di cui 97% proviene dalla Russia. Ma, Helsinki si affida al gas per coprire solo il 7% del suo fabbisogno energetico, affidandosi soprattutto a legname e nucleare, e risultando in questo modo estremamente indipendente da Mosca. Al contrario, l’Italia è ai primi posti della classifica per vulnerabilità.
L’impatto del conflitto sull’economia italiana potrebbe non essere limitato all’energia, ma essere rilevante in relazione all’export, incluso il mercato del pet, come d’altra parte era già successo a partire dal 2014 di conseguenza della prima guerra del Donbass.
Anche oggi il conflitto ha assunto da subito un profilo di guerra economica: la Commissione Europea ha avviato immediatamente l’iter per le sanzioni, anticipando sanzioni pesantissime su finanza, tecnologia, ma anche su import ed export. I primi provvedimenti riguardano i settori dell’energia e dei trasporti, i beni a duplice uso, nonché il controllo delle esportazioni e la politica dei visti. Di contro Putin, nel contesto politico di ritorsione per le sanzioni applicate dai paesi occidentali, potrebbe disporre un nuovo embargo sull’agroalimentare.
Sei anni fa, l’Unione Europea aveva intrapreso un gran numero di sanzioni contro il Cremlino, che aveva reagito impedendo l’accesso ai prodotti agroalimentari provenienti non soltanto dall’Unione europea, ma anche dal Canada, dagli USA, dalla Norvegia e dall’Australia. Le conseguenze per l’Italia, all’epoca, erano state evidenti, basti pensare che secondo le stime Coldiretti l’embargo era costato un miliardo di euro di esportazioni agroalimentari.
Le sanzioni, tuttavia, potrebbero questa volta non sortire l’effetto desiderato, e non scalfire l’economia della Russia, almeno sotto il profilo agroalimentare, finendo con il penalizzare esclusivamente il nostro export. Infatti, nell’ultimo decennio il Cremlino ha concentrato grandi risorse in una politica di food security mirata a riportare in equilibrio il saldo tra import ed export agroalimentare, a rafforzare l’indipendenza alimentare russa, e a puntare all’autosufficienza, sostenendo l’espansione del comparto produttivo e incoraggiando i produttori russi ad aumentare le loro prestazioni. In Russia, il concetto di “food security” va oltre la definizione generalmente accettata di “accesso stabile al cibo” ma si riferisce all’autosufficienza della Federazione nella produzione alimentare. I politici russi pongono particolare enfasi sulla necessità di ridurre la dipendenza dalle importazioni, usando l’espressione “food security” come sinonimo di autosufficienza alimentare.
La Dottrina della Food Security, nell’ottica della politica antagonista Russa era già sul nascere molto più che semplice retorica. Quando, il 7 agosto 2014, la Russia ha attuato l’embargo su un’ampia gamma di prodotti agroalimentari provenienti dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti d’America, dalla Norvegia, dal Canada, ha avviato un’azione di sostegno del settore agroalimentare interno volto allo sviluppo, non solo agricolo, ma anche industriale.
Certo, la sinergie tra embargo e misure di food security non sono state sufficienti a raggiungere tutti gli obiettivi di autosufficienza, e non ha segnato la fine delle importazioni in Russia. Tuttavia, proprio a partire dal 2014 il fabbisogno Russo è soddisfatto da nuovi partner nel commerciali: Mosca ha iniziato a commerciare di più con la Cina, all’interno dell’Unione economica eurasiatica e con il Medio Oriente.
Una politica di sostegno dell’autosufficienza, che in misura minore ha riguardato anche la produzione di alimenti per animali domestici, cresciuta in media del 10-12% negli ultimi dieci anni, con un tasso di crescita della produzione interna superiore rispetto alle vendite. Anche nel pet food, quindi abbiamo assistito a un graduale spostamento dei consumi a favore della produzione interna, per quanto il settore sia ancora lontano dal raggiungere la tanto agognata autosufficienza, soprattutto nella fascia premium e super premium. Se il conflitto dovesse durare a lungo è possibile che la combinazione di nuove misure di embargo e della Food Security Doctrine comportino, da un lato un ulteriore rafforzamento della produzione interna, e dal lato il consolidamento delle relazione commerciali con Cina e Medio Oriente a discapito dell’export europeo e italiano, con effetti di lungo periodo.
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